mercoledì 11 febbraio 2009

Ci ragiono e canto, uno spettacolo di canti popolari diretto da Dario Fo.

Ci ragiono e canto è uno spettacolo diretto da Dario Fo e messo in scena dal collettivo teatrale “La comune” nel 1966. Il lavoro nasce in seno all’Istituto Ernesto De Martino, grazie alle ricerche di Cesare Bermani e Franco Coggiola. Fu rappresentato per la prima volta il 16 Aprile del 1966 al Teatro Carigliano di Torino.

Dal programma di sala di quella sera si legge: “La rappresentazione vuole essere fotografia della condizione attuale del mondo popolare e proletario in Italia, attraverso un modo nuovo e spregiudicato di fare spettacolo… Non è uno spettacolo di folklore, ma uno spettacolo sulla civiltà proletaria, considerata quale punto di riferimento da cui è necessario partire per l’affermazione di una cultura alternativa, che sia in grado di resistere in ogni settore alle pressioni di fenomeni propri della società neocapitalista"



Nella versione registrata, andata in onda su Rai2 nel 1977 e disponibile in DVD, Dario Fo introduce lo spettacolo spiegando che l’origine dei canti rappresentati va ricercata nel lavoro dell’uomo. Le ricerche condotte per la realizzazione della messa in scena si pongono in una prospettiva fortemente antropologica. Questi canti hanno lo stesso respiro e ritmo dei mestieri e delle attività dell’uomo, venivano infatti cantati come accompagnamento e anche coordinazione dei movimenti. In particolare in quei mestieri che richiedevano la perfetta sincronia di più persone.

Questo aspetto è ben spiegato in uno dei saggi presenti nel testo di Dario Fo Manuale minimo dell’attore, edito da Einaudi. Sono i ritmi e le cadenze dei gesti dei vari mestieri che determinano i ritmi, gli accenti, la metrica e anche le melodie dei canti in questione: è il caso dei cordari di Siracusa il cui complesso sistema di movimenti necessari per intrecciare le funi era sincronizzato da un canto; stesso discorso per i battitori di pali di Venezia.

Non è solo questo però. Nello spettacolo vengono cantate anche canzoni di protesta, di denuncia, anarchiche.  Così recita per esempio un canto  laziale del XVIII secolo, Montesicuro:

 

Sono stato a lavorare a Montesicuro

Se tu sapessi quanto ho guadagnato

Ci mancano quattro “paoli” a fare uno scudo

Ci mancano quattro “paoli” a fare uno scudo

Non posso dire però quanto ho sudato

Son mezzo morto e mi si ferma il cuore

E l’anima se ne va per conto suo

E l’anima se ne va per conto suo

 

Lo spettacolo si presenta con una identità anomala: un concerto rappresentato. Qui sta la spregiudicatezza di cui parlava il programma di sala. I canti non vengono semplicemente fatti ascoltare, vengono anche mostrati. Gli attori eseguono in sintesi i movimenti dei mestieri che hanno generato i vari canti, in una rappresentazione che non vuole essere ricostruzione attraverso l’immedesimazione in personaggi, ma la ricostruzione quasi scientifica del semplice gesto, ripulito di ogni impurità. Gli attori non ci danno un’immagine complessa del mondo del lavoro  da cui i canti derivano. Per intenderci: non c’è né sudore, né sforzo. Ciò che ci viene mostrato, o meglio, che ci viene fatto capire, è proprio quello stretto rapporto tra lavoro e canto.

Questo spettacolo è una testimonianza straordinaria di un intero mondo. Va senza dubbio visto. Anche se è difficile trovare la registrazione. Appena in una qualche rassegna lo fanno vedere, correte!


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martedì 10 febbraio 2009

Confessione di un omosessuale guarito.

Ci tengo a precisare che questo piccolo pezzo l'ho scritto molti mesi fa, quindi ben prima tutta la polemica di Povia, di cui sinceramente non mi importa nulla. Anche la pubblicazione dell'articolo è antecedente al caso. Preciso inoltre che il testo che segue vuole essere una critica ironica a chi pensa davvero che l'omosessualità si a una malattia.

Confessione di un omosessuale guarito.

"Sapete di quando si dice che uno si sente tanti mali, ma non ci ha niente?  Gli fa male la pancia, si fa la gastroscopia, ma non ci ha niente. Gli fanno male i reni, ecco…i calcoli; e invece niente. Gli fa male la schiena, si fa i raggi, e ancora niente. E’ sano come un pesce. Ma i dolori li sente davvero e si fissa. “Che ci ho, che non ci ho”.  Non ci ha niente, il problema è qui, in testa. Prima si capisce questo e ci si convince, prima si guarisce.

A me è successo uguale. Ma l’ho capito subito e sono guarito. Ero giovane, avevo vent’uno anni. Già da tempo soffrivo di strani disturbi che non riuscivo a classificare, ma uno più degli altri mi colpiva: non ero molto attratto dalle ragazze. Sì, le frequentavo, ma non me ne piaceva nessuna, eppure i miei amici ci sbavavano dietro. A me non facevano alcun effetto. Nemmeno quando ci provavano loro, non corrispondevo mai. Pensavo che non era ancora ora per me, o che non avevo trovato ancora quella giusta. Ecco risolto il problema, ero uno difficile, esigente.

Poi però accadde che c’era un mio compagno di università…ebbene, spesse volte mi ritrovavo a guardarlo e non mi spiegavo perché. Era come se provassi attrazione. Ma non poteva essere. Io ero uomo, lui pure. No, no…a me piacevano le ragazze…mica ero uno di quelli…

Si però non riuscivo a togliermelo dalla mente. Più lo guardavo, più provavo quella cosa strana…

Cominciai a provare paura, non è che mi sono ammalato pensavo…”non è che sono diventato frocio”.

Mi misurai la pressione (avevamo mia nonna in casa e aveva l‘attrezzo per farlo) e presi un aulin.

Ma i sintomi non diminuirono, quindi andai dal medico. Gli dissi tutto, anche della mia paura di essermi preso l’omosessualità. Lui mi fece tutti gli esami del caso, e mi disse di stare tranquillo, che non avevo niente, che il problema era qui, in testa.

Mi disse di accettare di essere aiutato e di frequentare di più la chiesa.

Io già lo facevo. Ma non era abbastanza forse. Comincia a frequentare una messa al giorno e a  confessarmi un giorno sì e uno no. In poco tempo risolsi il problema. L’importante è accettare di avere un problema e di farsi aiutare.

Ora tutto è tornato normale. "


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lunedì 9 febbraio 2009

E Johnny prese il fucile (Johnny Got his Gun, USA 1971).

E Johnny prese il fucile è un film di Dalton Trumbo, basato su un suo romanzo del 1938.

Il titolo E Johnny prese il fucile deriva dal romanzo citato di Dalton Trumbo, vincitore di un National Book Award. 

Un film contro la guerra che si interroga sulla delicata questione dell’eutanasia. Si presenta di grande attualità per l’Italia di questi tempi, grazie all’incredibile dibattito suscitato dal caso di Eluana Englaro.

E’ l’ultimo giorno della Prima Guerra Mondiale quando Johnny viene colpito in pieno da una granata che lo riduce ad un torso d’uomo. Perde le braccia, le gambe, la vista e l’udito. I medici lo ritengono ormai un vegetale e lo tengono in vita vedendo in lui un ottimo oggetto di ricerca.


Ma Johnny invece sente. Riesce a percepire il mondo intorno a lui. Non può però comunicare. Un’infermiera riesce a capirlo e inizia a parlare con lui attraverso il tatto. E’ questo un momento di intensa poesia: l’infermiera scrive con le dita sul petto di Johnny l’augurio“Merry Christmas”. Lui capisce.

Il film è diviso in due piani che si alternano, evidenziati dal bianco e nero (il presente) e dal colore (il passato e i sogni).

Alla fine Johnny inizia a battere ripetutamente la testa sul cuscino. Attraverso segnali Morse sta infatti cercando di esprimere il suo desiderio di morire. Non vuole più stare in quelle condizioni. Non viene ascoltato dalle autorità che gli rifiutano la morte.

Suscita però la pietà dell’infermiera che…

Ovviamente non posso dirvi di più, vi farei un torto.

Siamo padroni della nostra vita? Possiamo decidere noi quando morire? Ci sono vite meno degne di essere vissute? La vita per forza è una forma di morte?

 E Johnny prese il fucile è un film bellissimo che unisce emozioni, sentimenti, riflessioni sulla vita, su Dio e sulla morte. 

Una curiosità: il video della canzone One dei Metallica contiene proprio sequesnze tratte da E Johnny prese il fucile. 



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domenica 8 febbraio 2009

La voce ribelle di Lounès Matoub.

Lounès Matoub è stato il più importante cantautore algerino di sempre. Un personaggio amato e ugualmente odiato a causa della sua perenne lotta per affermare il valore della sua cultura berbera. Morì ucciso in un agguato il 25 giugno 1998, dopo una vita molto turbolenta e caratterizzata da una eterna e incrollabile ribellione (ha scritto un’autobiografia dal titolo emblematico: Rebelle (1995).

Era scontroso, orgoglioso, testardo, incorruttibile. Le sue canzoni sono sempre state dirette e esplicite, non amava i giri di parole. Gli altri musicisti nordafricani tendevano a nascondere le loro denunce tra le pieghe dei testi, per evitare censure. Lounès Matoub diceva sempre esplicitamente ciò che pensava. 



Per comprendere la sua vicenda è necessario introdurre brevi cenni riguardo la storia del suo paese.

Indipendente dal 1962, l’Algeria fu sottoposta a un duro e obbligato processo di arabizzazione culturale, religiosa, economica e soprattutto linguistica, senza tener conto delle differenze etniche (immaginate se a scuola obbligassero ad utilizzare una lingua che una parte della popolazione ignora). Matoub si fece portavoce della propria cultura e della propria lingua, difendendole con la forza della sua musica.

Il suo temperamento indomabile gli costò però la vita.

Emigrò in Francia e lì intraprese la sua carriera, in Algeria sarebbe stato impossibile. Le radio algerine non trasmettevano la sua musica che circolava clandestinamente tramite le cassette. Nonostante il tentativo di oscurarlo, in patria divenne famosissimo.

Ma non riusciva a stare lontano dal suo paese. Sebbene fosse pericolosissimo per lui, tornò spesso in Algeria. Una volta ricevette una scarica di cinque colpi di pistola da un poliziotto che lo rese zoppo a vita e fu costretto a usare una sacca per colostomia. Nel 1994 fu rapito da GIA (Gruppo Islamico Armato). Per paura della sicura rivolta della popolazione, non lo uccisero. Nessuno era mai sopravvissuto a un rapimento del GIA. Fin quando non incontrò la morte, dopo una curva, ad un finto posto di blocco.


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sabato 7 febbraio 2009

La voce e le canzoni del cantautore Vladimir Vysockij. (1938-1980).

Vladimir Vysockij (si può anche trovare come Visotski, Vysotsky, Visotsky, Vissotsky) è stato un importante cantautore russo. Ma fu anche attore e poeta. Scrivo questo articolo per stimolare la conoscenza di un grande artista poco conosciuto in Italia.

La storia delle canzoni di Vysotsky è fatta di cassette registrate quasi per gioco e fatte circolare amico dopo amico, porta dopo porta. La produzione di canzoni è quasi clandestina. Negli anni sessanta era possibile ascoltarle per le strade di Mosca.

Sono canzoni di carattere sociale e politico, animate da una grande carica poetica.

La sua voce era aspra, arrabbiata.  




Vladimir Vysotsky, pur divenendo una leggenda, non fu molto amato dalle autorità sovietiche. Fu sistematicamente boicottato attraverso l’annullamento dei concerti e la non pubblicazione delle sue canzoni (tranne cinque 45 giri in 25 anni di attività). Fu lentamente reso invisibile. Ciò gli provocò notevoli cali nervosi. Oltretutto conduceva una vita irregolare: Era dedito all’alcol e dipendente dalla morfina. Morì per un attacco cardiaco.

Di seguito alcuni versi che mi hanno particolarmente colpito:

Le nostre zampe e le nostre mascelle sono veloci.
E rispondi, tu che sei il capo branco,
Perché ci avventiamo, braccati, contro i loro fucili
E non cerchiamo di trasgredire il divieto?

 La caccia ai lupi (1968)

Di recente Eugenio Finardi ha reinterpretato diverse canzoni di Vladimir Vysotsky, in un album-spettacolo dal titolo Eugenio Finardi interpreta Vladimir Vysotsky. Il cantante al microfono

Per maggiori informazioni:

voce wikipedia.

Alcune traduzioni delle canzoni.


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