martedì 19 maggio 2009

"I fratelli" di Terenzio, monologo sull'educazione dei figli.

Publio Terenzio  Afro è stato un riformatore del teatro. Con lui la commedia romana di derivazione greca  subisce notevoli trasformazioni che non andarono molto d’accordo con i gusti del pubblico, fatto che rese difficile la vita del poeta. Nelle commedie di Terenzio ci sono diversi messaggi ideologici di tipo progressista e in questo articolo vorrei proporre la lettura del celebre monologo iniziale dell’ultima commedia di Terenzio, gli Adelphoe, ossia I fratelli. Viene esposta infatti un’idea riguardo l’educazione dei figli molto innovativa, che troverebbe il consenso dei più moderni progressisti di oggi. La commedia fu rappresentata nel 160 a.C.: che per più di duemila anni il mondo abbia girato a vuoto?


Cenni biografici di Terenzio.

Terenzio nacque probabilmente tra il 190 e il 185 a.C. a Cartagine e fu condotto a Roma come schiavo presso il senatore Terenzio Lucano che gli diede un’educazione liberale e poi lo affrancò. E’ però probabile che questa deduzione provenga esclusivamente dal nome Afro, cosa che non suggerisce direttamente una provenienza africana o una condizione servile. Sta di fatto che il senatore Terenzio dovette introdurlo nei circoli culturali più all’avanguardia nella Roma del tempo. Si trattava di un ambiente intellettuale progressista e filellenico che aveva l’intento di rinnovare la cultura romana. Uno di questi circoli era quello degli Scipioni che raccoglieva le figure più avanzate e vivaci.

Terenzio concentrò la sua produzione di commedie in un periodo molto breve ma intenso: tra il 166 e il 160 a.C. scrisse e fece rappresentare sei commedie: L’Andria (166 a.C.), La suocera (165 a.C.), Il punitore di se stesso (163 a.C.), L’eunuco (161 a.C.), Formione (161 a. C.) e I fratelli (160 a.C.).


L'Adelphoe (I fratelli).

La commedia che ci interessa è I fratelli, tratta da un’omonima commedia di Menandro. La trama si basa su due fratelli appunto e il loro diverso modo di condurre la propria vita: Dèmea è rozzo, tradizionalista, sposato con due figli mentre Micione è scapolo ed ha una mentalità molto più aperta. Quest’ultimo adotta uno dei suoi due nipoti e lo educa in modo molto liberale. L’altro rimane a Dèmea che gli impartisce un’educazione molto severa. Ma questo metodo educativo fallisce e il giovane ne combina di tutti i colori. Il tradizionalista Dèmea è costretto ad ammettere i suoi errori e ad accordare al figlio tutte le libertà che prima gli aveva negato.

Già la trama suggerisce l’idea di fondo della commedia, ma leggete come Micione esprime  direttamente il suo modo di pensare:

 

MICIONE:

                   [Eschino, il figlio adottivo] è tutta la mia gioia e consolazione. Faccio di tutto perché mi contraccambi: gli concedo, lascio correre, non ritengo necessario che faccia tutto come voglio io e poi, quelle ragazzate che gli altri fanno di nascosto dal padre ho abituato mio figlio a non nascondermele. Perché chi avrà l'abitudine di mentire a suo padre, o avrà il coraggio di ingannarlo, tanto più lo avrà con gli altri. Sono convinto che sia meglio frenare i figli col rispetto e con l'indulgenza piuttosto che con la paura. Su questo mio fratello non è d'accordo con me, non gli va. E spesso viene da me e grida: «Che fai, Micione? Perché mi rovini quel ragazzo? Perché fa l'amore? Perché si ubriaca? Perché favorisci tutto questo spesandolo? Perché sei così generoso nel vestirlo? Sei davvero una pappamolla!» Lui come padre è troppo severo, al di là del giusto e del lecito, e, a mio avviso, si sbaglia di grosso se crede che l'autorità basata sulla forza sia più salda e sicura di quella ottenuta con l'affetto. Io la penso così (e mi regolo di conseguenza): chi fa il proprio dovere per timore di un castigo, finché pensa che la cosa si verrà a sapere, sta attento; ma se spera di farla franca, torna a seguire la propria indole. Quello che ti sei conquistato trattandolo bene, agisce spontaneamente, cerca di contraccambiarti: che tu ci sia o no, si comporterà allo stesso modo. Questo è il compito di un padre, abituare suo figlio ad agire onestamente da solo, anziché per paura degli altri: è questa la differenza che c'è tra il padre e il padrone. Chi non ci riesce ammetta di non saper comandare ai figli.

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7 commenti:

  1. Perdonami, ma non trovo il link. :-)

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  2. non c'è il link, il monologo è pubblicato nel corpo dell'articolo, alla fine in corsivo...

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  3. lo leggevo qualche giorno fa (Afro), non ricordo in che ambito. bell'articolo comunque

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  4. é un esempio di come la cultura dovrebbe guardare anche indietro, per andare avanti...(è un po' retorica ma è più o meno vero)

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  5. nn aprezzo molto terenzio a dire la verità mi fa venire sonno

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  6. QUESTA é LA PARTE PIù BELLAAAAAAA..e anche la più giusta..e se esistono davvero dei genitori come Micione allora

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