sabato 4 aprile 2009

Analisi del film "Nostra Signora dei Turchi" di Carmelo Bene. La pellicola dipinta.


Lo scontro con il cinema di Carmelo Bene. (Seconda parte)

La pellicola dipinta.

Innanzitutto tratterei un argomento specificatamente cinematografico e che chiarifica gli elementi appena trattati: la fotografia.

È singolare che Mario Masini indichi Carmelo Bene come un maestro nel suo campo, quello di direttore della fotografia. Dice infatti di aver imparato da lui molte cose sul colore. Carmelo Bene compone ogni immagine con una particolare attenzione per questo aspetto, attribuendo alla parola detta un particolare atteggiamento del colore, una sfumatura, una particolare atmosfera. E così come spesso accade nella sua recitazione colma di eccessi, ugualmente avviene nel suo uso del colore: esasperato, saturo, pesante.   

 

I colori sono contraddizioni, come la vita. Tutto si può riassumere in questo. Quel che importa è prendere il parole, parole, parole di Shakespeare e colorarlo in giallo, blu, rosso. Dico la stessa cosa, la stessa parola, ma il colore è diverso. Il pubblico vede che c’è un cambiamento, ma questo non avviene al livello del significante acustico. Per il momento, bisogna imparare a utilizzare i colori fondamentali. 

 

Risulta chiaro che Carmelo Bene ribalta totalmente l’assunto di fotografia come riproduzione fedele della realtà. Il rapporto realtà-immagine è più vicina al caso della pittura che a quello della fotografia.

Il pittore (nel caso forse più comune) riporta la realtà filtrandola attraverso la sua particolare poetica ed estetica. La fotografia sembrerebbe capace di riportare la natura così come ella è, si direbbe in modo oggettivo. Anche se attraverso un unico punto di vista, per cui si dice che fotografare significa anche scegliere. Per Carmelo Bene la pellicola assume la materialità di una tela su cui imprimere colori ed effetti che trasfigurano la realtà. Secondo Masini infatti

 

In Nostra Signora dei Turchi, la sequenza iniziale già mostra che siamo in un mondo ridisegnato, non quello Lucido e preciso della normale realtà fotografica. Tutto nel cinema di Carmelo è, secondo me, frantumazione, annientamento di un sempre risorgente (quasi impossibile cancellarlo) riferimento verista, realista, naturalista, dell’immagine fotografica.

 

I mezzi per ridisegnare la realtà, nel caso di Nostra Signora dei Turchi, sono stati dei semplici “fondi di bicchiere, vetri e gelatine colorate posti davanti all’obiettivo o ai proiettori”(Mario Masini).

Quello che potrebbe sembrare un punto di forza della fotografia, il suo carattere di tecnica inedita (Ghezzi ha scritto: “Per la prima volta l’uomo ha potuto vedersi con gli occhi chiusi”) per Carmelo Bene diventa un punto di debolezza da cui affrancarsi e da cui dipende il suo comportarsi come un pittore.

Ciò risulta chiaro anche dal suo atteggiamento riluttante a subire il passivo imprimersi della luce; interveniva con violenza sulla pellicola

 

Alla lettera. Squartata, bruciata, fatta a pezzi…mezzo chilometro di pellicola, e noi, io, Masini, Contini, i tecnici in camice bianco che la trinciavamo con i coltelli, la bruciacchiavamo con le sigarette, la storpiavamo sotto le scarpe…mutilare la pelle-pellicola, questo i cineasti non si sono mai azzardati a farlo. Avrebbero dovuto essere dei pittori nauseati, intanto.





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