Dopo quattro giorni di inattività a causa della clausura necessaria per superare due esami, torno a scrivere su questo blog dedicando un articolo ad una delle figure più importanti della storia del teatro, Vsevolod Mejerchol'd. Parlerò in particolare della sua tragica morte, avvenuta per mano del regime stalinista.
Parlerò di ciò che in vita lo rese importante in un articolo dedicato. Dirò solo brevemente che le sue ricerche sono state determinanti nell’ambito degli sviluppi di quella che oggi chiamiamo comunemente regia. La sua fama è sicuramente legata alla “biomeccanica”, il particolare sistema di esercizi per l’attore che sviluppò nei primi vent’anni del Novecento. Ma ripeto, tratterò a fondo questi argomenti in altri articoli.
Ciò che ora mi interessa sottolineare è il fatto che nel Novecento si muore per il teatro. Prima no. Giordano Bruno fu bruciato a Campo de’ Fiori a Roma nel 1600 non per il teatro, aveva scritto un dramma dal titolo evocativo e scabroso (Il Candelaio, in riferimento all’ano dell’omosessuale), ma per le sue idee sul cosmo che facevano vacillare le colonne dell’universo cristiano.
Mejerchol'd fu ucciso per il suo teatro.
Non era accettabile nell’Unione Sovietica degli anni trenta fare teatro d’arte. Si veniva accusati di formalismo. Non si poteva produrre arte fine a se stessa. Pesava sulle spalle di Mejerchol'd il suo passato di lavoro contrario e a tratti ostile al naturalismo. Il suo era considerato un “teatro straniero” che si era permesso di non promuovere a fondo la drammaturgia russa, mettendo in scena soprattutto classici (per giunta con uno stile formalista); il suo era stato l’unico teatro a non aver celebrato il ventesimo anniversario della rivoluzione. Il suo lavoro venne visto lontano dalla realtà sovietica e quindi “straniero”, in patria.
Il suo teatro fu chiuso l’8 Gennaio del 1938.
Il 20 Giugno 1939 venne arrestato.
Il 1 Febbraio 1940 si svolge il suo processo. In venti minuti fu condannato alla fucilazione. Venne fucilato il giorno dopo, a sessantasei anni. Di seguito le sue ultime lettere, scritte nel gennaio dello stesso anno:
Lettera a Molotov del 2 gennaio 1940:
"Quando i giudici istruttori nei miei confronti diedero corso ai metodi fisici delle loro azioni su di me e ad essi unirono ancora il cosiddetto “attacco psichico” l'una cosa e l'altra suscitarono in me un terrore così mostruoso che la mia natura fu rivelata fino alle radici stesse […]. I miei tessuti nervosi risultarono vicinissimi al tegumento del corpo, e la pelle risultò tenera e sensibile come quella di un bambino; gli occhi capaci (in presenza di un dolore fisico e un dolore morale per me insopportabili) di versare lacrime a torrenti. Giacendo sul pavimento a faccia in giù, manifestavo la capacità di contorcermi e strillare come un cane che il padrone batte con la frusta."
"Mi hanno fatto sdraiare sul pavimento, con il viso a terra; mi hanno colpito la piante dei piedi e la schiena con un tubo di gomma annodato; quando mi facevano sedere, mi colpivano le gambe con lo stesso strumento. I giorni successivi in quei punti si era formata un'abbondante emorragia interna, e colpirono sulle ecchimosi rosse, blu, gialle. Il dolore fu tale che mi sembrava mi versassero acqua bollente nei punti sensibili (e io gridavo e piangevo dal dolore). Mi hanno colpito al viso con le mani. Il giudice istruttore mi minacciava incessantemente: “se non firmi ti picchieremo di nuovo, lasceremo intatte di te solo la testa e la mano destra, trasformeremo il resto del corpo in un ammasso informe e sanguinoso”. Fino al 16 novembre 1939 ho firmato sempre."
Mejerchold’t aveva firmato tutte le confessioni fino al 16 novembre del 1939, quando ritrattò tutto. Scrive le lettere quando viene trasferito nell’ospedale psichiatrico della prigione, a causa di un collasso psichico. Pochi giorni dopo il suo arresto, sua moglie fu trovata massacrata a coltellate, probabilmente ad opera della polizia segreta.
La sua morte fu resa pubblica solo nel 1946 e la causa fu “arresto del cuore”.
Le notizie alla base di questo articolo sono tratte dal libro: La nascita della regia teatrale di Mirella Schino, Laterza 2003.
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